di Alessandra Premici | La città del sentimento, sin dal 22 Settembre 1967, abbraccia l’evento più atteso e sentito da intenditori ed amanti del nettare per eccellenza.

Il Vinitaly rappresenta, ad occhi più e meno esperti, oltre che l’evento cruciale del settore e la vetrina più ambita, un vero e proprio state of mind con il quale vivere in modo totalizzante una o più giornate.

Un passo dopo i tornelli, che accolgono migliaia di visitatori scalpitanti, si ha la sensazione di entrare in una dimensione parallela, un universo nuovo e sorprendente.

Neanche un cielo piovoso avrebbe il potere di compromettere la passeggiata, reale e metaforica, tra le terre italiane e non solo.

Si tratta di affondare i propri passi in un paradiso liquido, -senza scomodare le intuizioni metaforiche di Zigmunt Bauman- termine che, in questo caso, descrive la forma concreta che assumono gli odori e i colori dell’evento.

Questa atmosfera inebria, senza preavviso, esperti e visitatori, inizialmente colti anche dall’incredulità che provocano i 95000 metri quadrati e i 4000 espositori. 

Vivere il Vinitaly a Verona, significa cogliere e godere dell’irripetibile opportunità di avere l’Italia a due passi e in qualche sorso, nonché di gustare, tra passerelle curatissime, i prodotti tipici di terre diverse.

In un universo sempre più “connesso”, in cui spesso rischia di sfumare il valore delle persone con le loro storie, i #winelovers poliferano e le pubblicità più accattivanti sfoggiano la bottiglia col miglior design, accanto a donne affascinanti in abiti attillati a bordo piscina.

Ma qual è l’anima viva del vino?

Posti, mani, famiglie: il vino contiene, nel rumore deciso di un sughero appena stappato, l’ennesima potenza delle dimensioni di vita quotidiana.

Tra Marche, Piemonte, Veneto, Puglia e Friuli, sorseggiare ascoltando, equivale a vivere storie e persone, perché come si legge, passeggiando “in Puglia” tra i  muri di uno stand “ciascuna casa è una storia, che non è identica a nessun’altra”.

Nessuna pretesa, quindi, se non quella di ascoltare, direttamente dai protagonisti, storie di lavoro e persone, che si raccontano con piacere ed entusiasmo, oltre il dovere di promuovere.

La prima “chicca” appartiene alla terra del Piemonte. E’ l’azienda Beppe Marino, della quale ci racconta una signora, gentile ed accogliente, che propone un assaggio di passito.

“Mio padre era appassionato; la nostra storia risale al 1972 e le prime etichette dei vini, contenevano lo skyline di casa con i vigneti”.

Il moscato passito che la signora ci offre, si chiama “Albarosa” in onore, spiega lei, della moglie di Beppe Marino.

“Prima ancora che avvenga la vendemmia, Rosalba prende i grappoli più belli dove ci sono acini diradati e li appende al sole, sul cucuzzolo della collina, lasciandoli due mesi.”

L’azienda, inoltre, si è trasferita in un monastero, dove c’erano suore che facevano vino per la messa. C’era quindi l’esigenza di produrre vini dolci, gradevoli da bere, anche durante le messe del mattino”.

I vini prodotti in azienda valorizzano l’identità della terra del luogo in quanto nascono da vitigni autoctoni, come Barbera D’Asti, Dolcetto D’Alba e Moscato D’Asti.

Un altro spiraglio particolarmente curioso, si apre tra le terre pugliesi.

Si tratta dell’assaggio tra gli stand “Vallone”, il cui slogan è già significativo: “il racconto di una tradizione al vostro palato”.

L’uomo che ci accoglie con professionalità, afferra nuovi calici e racconta della loro particolarità: il Negramaro “Graticciaia”.

“E’ una nostra esclusiva. L’enologo ha avuto la grande intuizione di far appassire le uve su una terrazza a strapiombo sul mare”.

Un processo, dall’immagine fortemente suggestiva, ricco di lavoro e poesia all’interno del quale le uve vengono portate prima a maturazione, poi lasciate appassire su graticci.

Il nome del vino deriva, infatti, dalla “graticciaia”, il fruttaio in cui sono sistemate le leggere stuoie composte da canne intrecciate e vimini.

La temperatura del mosto è disciplinata durante tutto il processo di fermentazione lenta e la prima fase dell’affinamento viene realizzata in piccole botti di legno per 12 mesi.

A qualche passo dallo stand precedente, appare la firma “Rivera”, davanti alla quale ho cercato di appuntare e decifrare le voci più esperte:

Non ha senso forzare la natura del vino. La tendenza, nel mercato, è quella di favorire le ‘identità mascherate’, aggiungendo aromi e sapori che non appartengono a quel particolare vino, già dotato di una propria identità”.

Questo il commento deciso dell’enologo della Masseria Altemura, azienda immersa nella “magia del Salento”, appartenente alla famiglia Zonin.

Il calice che ha accompagnato questi appunti, rubati di sfuggita, è un “Puer Apuliae”, ottenuto da un clone, quasi dimenticato, di Nero di Troia.

La vinificazione in chiave moderna e l’invecchiamento per 14 mesi in barriques nuove, hanno permesso di ottenere un vino in cui i profumi caratteristici di questa varietà, la viola e l’anice stellato, risultano in maniera prepotente sostenuti da un palato di grande fittezza.

Queste ultime righe ammetto di averle scopiazzate dalla descrizione ufficiale, ma vi assicuro, pur non essendo esperta, che più che un vino, quel sapore, somigliava ad un sentimento, come tantissimi altri assaggiati.

Gli ultimi minuti a disposizione ci hanno portato ad un respiro internazionale. Due assaggi, infatti, ci hanno condotto ben oltre i confini europei.

I vini del Sud Africa, destano sorpresa e curiosità. La signora, sorridente e entusiasta, ci spiega che il rosso che stiamo per assaggiare è ottenuto da un innesto unico, da cui nasce il vitigno “pinotage”, caratteristico del luogo.

Pieno, aromatico e strutturato, con toni di banana speziata, cioccolato e tostatura, si legge sulla descrizione. Un tuffo in terre lontane che, inaspettatamente, costituiscono patria di prodotti carichi di sapore ed identità.

Seppur lontano dai sapori di rossi e bianchi, l’ultimo assaggio, è un regalo che ci offre il Giappone. Il bicchiere è di Sakè, bevanda alcolica ottenuta da un processo di fermentazione del riso, acqua e spore kojii. Per questo motivo viene anche chiamato vino di riso, nonostante costituisca una categoria di bevanda a sé stante.

Il consumo di Sakè è ancora associato, nella cultura giapponese, a cerimonie o occasioni formali, come i matrimoni, nei quali simboleggia spesso l’unione delle due famiglie.

Nei grandi eventi celebrativi, questa bevanda dolce ma decisa, si sorseggia prima delle feste per “purificare l’anima prima di incontrare Dio”, racconta il ragazzo che ci accoglie nello stand.

Col vino, dunque, si parla. Del vino si parla. Imprescindibile, ad ogni sorso, scorgere oltre i sapori che irrorano decisi il palato, le storie di chi, ogni giorno, imbottiglia con passione uva e sole, ma soprattutto persone.

Foto credit: Alessandra Premici

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