La storia dell’Ostia miracolosa che a Lanciano. nel 1273, si convertì in Carne sanguinante e che oggi si venera in Offida, è documentata in una pergamena dell’epoca, di cui purtroppo l’originale è irreperibile, ma di cui si conserva una copia autentica fatta per mano del notaio Giovanni Battista Doria nel 1788. Ecco il racconto del Miracolo Eucaristico di Offida:

«Il demonio, che con insinuazioni maligne semina sempre zizzania nel mondo, era da qualche tempo riuscito a suscitare discordia tra Giacomo Stasio e Ricciarella, sua moglie, ambedue di Lanciano, nel regno di Puglia. Desiderando costei ardentemente di far cessare questa discordia, per farsi amare dal marito si rivolse a un’altra donna della città con queste parole: “Suggeriscimi tu qualche mezzo col quale io riesca a farmi benvolere da mio marito”. Ed ella: “Và – rispose – a ricevere la Comunione: metterai quindi nel fuoco l’Ostia consacrata e, polverizzata che sia, la infonderai nel cibo o nella bevanda per tuo marito e così rientrerai nelle sue grazie”.

Ricciarella, desiderando essere amata, si recò da un sacerdote della città, per ricevere la Comunione. Chinato il capo, si fece cadere l’Ostia nel seno, senza che il sacerdote se ne accorgesse, ingannandolo e credendo di potersi burlare anche di Dio, con suo grave danno. Portata l’Ostia a casa, mise un pò di fuoco in un coppo e, con vergognosa crudeltà, vi gettò l’Ostia stessa, il vero Corpo di Cristo! L’Ostia allora, rimanendo in piccola quantità sotto le apparenze di pane, nel resto si convertì all’improvviso e miracolosamente in Carne, da cui sgorgò Sangue così abbondante che si diffuse per tutto il coppo. Spaventata, la donna cominciò a gettarvi cenere e colarvi cera, che cercava di comprimere con le mani, affinché il Sangue cessasse di scorrere, come si può perfettamente verificare, guardando l’Ostia cambiata in Carne e il coppo irrigato di Sangue.

Ma vedendo che il Sangue non cessava di scorrere, nè si riusciva in alcun modo a stagnarlo, Ricciarella, sempre più impaurita, prese una tovaglia di lino, ricamata con fili di seta, v’involse il coppo con l’Ostia e il Sangue, portò questo involto nella stalla e lo sotterrò dove solevano ammucchiarsi le immondizie e le spazzature di casa. La sera tornò il marito col suo giumento, spingendolo come al solito, dentro la stalla. Ma la bestia non si lasciava indurre a entrarvi, cosa che non aveva mai fatto in passato. Finalmente, percossa e trascinata, vi entrò, rimanendo però prostrata verso quella parte dove l’Ostia era sepolta, da sembrare quasi che volesse adorarla. Giacomo allora, sorpreso, cominciò a riprendere più aspramente la moglie gridando forte, l’accusava infatti d’aver fatto qualche stregoneria nella stalla, se la bestia si rifiutava di entrarvi. Ma Ricciarella ripeteva sempre di non avervi fatto  nulla di male. E così il Sacramento giacque sette anni sotto il letame, e le bestie, entrando e uscendo sempre di lato, lo veneravano.

Ricciarella intanto, agitata giorno e notte da continui e amari rimorsi, non poteva avere pace, riconoscendosi meritevole delle più gravi pene. Risoluta perciò di confessarsi e rivelare l’enorme delitto a qualche buon confessore, fece chiamare il venerando frate Giacomo Diotallevi, nativo di Offida, priore del convento di Sant’Agostino in Lanciano. Inginocchiata ai suoi piedi, fra molte lacrime e ininterrotti singhiozzi, proseguiva la sua confessione, ma non osava nominare quell’orrendo delitto.

Il confessore, nella sua innata prudenza, turbato da tale angoscia, si diede a esortare la penitente perché completasse con franco coraggio la confessione. Ma Ricciarella ripeteva sempre che il suo delitto era tanto nefando, da non avere il coraggio di manifestarlo, se non fosse aiutata dal confessore stesso. Il frate allora provò a lungo a interrogarla: ma quella rispondeva ogni volta che ben altro era il delitto commesso da lei. Infine il frate esclamò: “Ormai mi sembra di aver enumerato tutti i più orrendi peccati e non so più che cos’altro tu abbia potuto fare, se non che uccidere Dio.

A questo punto la donna gridò: “Sì, proprio questo, o padre, ho commesso: ho ucciso Dio! Ho ucciso Dio!”. Il frate allora cominciò a chiederle che cosa intendesse dire con questo e la esortava a confessarsi coraggiosamente, per quanto grave potesse essere la colpa commessa, senza più alcun ritegno, perché il buon Dio non vuole la morte del peccatore, ma la sua conversione. Finalmente Ricciarella, vincendo i singhiozzi e le lacrime, espose con ordine tutta la dolorosa storia del sacrilegio. A tale racconto, il frate rimase inorridito; raccomandò tuttavia alla penitente di tranquillizzarsi e, prima di licenziarla, raccapricciando al pensiero di lasciare il Sacramento ancora in mezzo a tanto sudiciume, s’accordò con lei per rimuoverlo al più presto dal luogo indegno.

Vi si recò vestito dei sacri paramenti: non avendo a schifo il fetore, scavò sotto il letame e trovò ch’esso non aderiva né al coppo né al panno: ma tanto l’uno quanto l’altro erano come sollevati, senza aver contatto con le immondizie. Estratto il coppo, vide che il Sacramento, il sangue e la tovaglia erano non solo incorrotti, ma così freschi e illesi come se vi fossero stati solo allora sepolti. Portò con sé il Santissimo Sacramento nel Monastero di Sant’Agostino, dove abitava, e, dopo pochi giorni, trovato un pretesto per assentarsi, ottenne dai superiori il permesso di partire.

Giunto in Offida, raccontò tutto con ordine e mostrò la preziosa Reliquia – che possedeva dal 1280 – al sottoscritto frate Michele e a tutti i più illustri concittadini. Gli offidani, consapevoli del grande onore col quale bisognava conservare quelle preziose Reliquie, deliberarono di costruire un ricco reliquiario, dove chiudere l’Ostia con alcuni frammenti della santissima Croce. Raccolto perciò l’argento necessario, pregarono vivamente lo stesso frate Michele Mallicani, offidano, priore del convento di Offida, di volersi recare a Venezia, per farvi costruire un’artistica croce in cui collocare l’Ostia trasformata in Carne insieme con alcuni frammenti del sacro Legno, che egli stesso, durante una predica, mostrò al popolo per stimolarne la devozione e a maggior gloria di Dio.

Quindi, poiché fra i religiosi l’obbedienza è sommamente stimata, lo stesso frate Michele, secondo le regole, subito dopo le feste di Pasqua, s’imbarcò per Venezia in compagnia d’un confratello, per affidare a un orafo la lavorazione del reliquiario. Giunto in quella città, si fece anzitutto promettere dall’orafo, con giuramento di fedeltà, che non avrebbe rivelato a nessuno quanto egli stava per vedere e collocare dentro la croce. Dopo di che, l’orafo fece per prendere la pisside con l’Ostia miracolosa, ma colto da febbre improvvisa, esclamò: “Che cosa mi hai portato, o frate mio?”. Il religioso allora gli chiese se fosse in peccato mortale.

Avendo l’orefice risposto di sì, fece la sua confessione davanti allo stesso frate e, scomparsa la febbre, senza alcun pericolo prese la pisside, ne estrasse l’Ostia e la chiuse insieme col sacro Legno nella medesima croce, con sopra un cristallo, come si può chiaramente vedere. Appena i due frati, ritirata la croce, se ne furono andati, l’orafo, violando il giuramento di fedeltà, si presentò al doge della repubblica, dicendo così: “Signore, alcuni frati della Marca d’Ancona portano sante Reliquie veramente mirabili dentro una croce da me lavorata”. E riferì al doge tutto ciò che era capitato a lui stesso, quando aveva osato toccare la pisside con l’Ostia trasformata in carne; infine soggiunse: “Si degni l’eccellenza vostra ducale di far sequestrare queste sante Reliquie per la nostra città”.

Il doge, pensando di far cosa gradita ai suoi sudditi, ordinò immediatamente ad alcuni nocchieri di mettersi in mare, per inseguire i frati e catturarli. Se non che il mare si fece subito così tempestoso, che essi non poterono salpare. Perciò tornarono indietro e ne riferirono al doge. Il quale, affacciatosi alla finestra, e vedendo il mare tutto calmo, disse ai nocchieri: “Lasciateli andare quei religiosi, perché così vuole Dio”. Tutti questi particolari furono poi risaputi dai suddetti frati nel porto di Ancona, per bocca di alcuni mercanti veneziani. E così giunsero felicemente con la croce in Offida». Il documento notarile termina così: «Nel nome di Dio. Amen».

Oltre la pergamena del XIII secolo esistono molti altri documenti che confermano la realtà del Prodigio ed il suo culto ininterrotto nei secoli. Vi sono infatti numerose Bolle papali a cominciare da quella di Bonifacio XIII del 20 settembre 1295, di Giulio II, San Pio V, Gregorio XIII, Sisto V, Paolo IV, arrivando sino a Pio IX; interventi di Congregazioni romane, decreti Vescovili dell’Arcivescovo di Lanciano e del Vescovo di Ascoli, gli statuti comunali di Offida risalenti ai primi del 1400, doni votivi, i più antichi dei quali sono del secolo XIV e fra questi due anelli pontifici con stemma, tiare e chiavi incrociate, l’uno dono di Pio II e l’altro di Paolo II, oltre a numerose epigrafi, iscrizioni, lapidi e agli affreschi di Ugolino di Ilario nella cappella del Santissimo Corporale del Duomo di Orvieto, che illustrano proprio il Miracolo di Offida. All’insigne Santuario è connessa la storia religiosa e civile di Offida, la quale per questo prodigio si può chiamare «Città del Santissimo Sacramento».

(Sergio Meloni e Istituto San Clemente I Papa e Martire, “I Miracoli Eucaristici e le radici cristiane dell’Europa”, Edizioni Studio Domenicano, 2007, Bologna, pag 58-62. – dal sito: www.cattolicivegetariani.it)

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