di Gabriele Gabrielli, Docente Università LUISS Guido Carli [ www.gabrielegabrielli.com ]

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p align=”justify”>Non si può far finta di niente. I numeri della disoccupazione nell’Unione Europea sono ormai impressionanti; superano i 22 milioni le persone senza lavoro, mentre il tasso di disoccupazione sfiora il 10% secondo le stime di Eurostat. Non consola molto la circostanza che, stando ai dati forniti, in Italia saremmo un paio di punti percentuali sotto. Vorremmo considerare archiviata, dunque, la fase in cui quanti guardavano con preoccupazione crescente al lavoro e alle sue dinamiche venivano considerati allarmisti e additati come pessimisti inguaribili che non aiutavano la ripresa economica del Paese. Ora i dati sono davanti agli occhi di tutti nella loro critica dimensione, mentre va anche accreditandosi l’idea che, almeno su questo punto, non si sarebbe ancora toccato il fondo. La questione del lavoro, però, non riesce a “sfondare” l’agenda politica. Stenta a farsi strada e fa proprio fatica, malgrado i numeri forniti da indagini e stime e le molte storie di lavoratori, famiglie e imprenditori in difficoltà documentate dalla stampa, ad occupare il posto centrale che si merita. Cosa altro deve succedere perché la politica, le forze di governo e di opposizione, il Parlamento decidano di avviare seriamente il confronto sul lavoro discutendone a fondo le varie dimensioni ed implicazioni? Alcuni commentatori in questi giorni hanno invitato la nuova leadership del Partito democratico uscita dal recente voto degli iscritti ed elettori delle primarie a dire chiaramente quali sono le questioni su cui è disponibile a sedersi a un tavolo di confronto con la maggioranza, cogliendo così l’”interessante segnale” proveniente dal Governo in merito a una possibile candidatura di Massimo D’Alema a rappresentare la politica estera europea. Di questioni ne sono state evocate molte, da quelle che riguardano la riforma universitaria a quella della giustizia, fino ad arrivare alle più complessive e sempre presenti riforme istituzionali. Non viene citata, però, quella del lavoro, delle forme e dei percorsi di accesso allo stesso e delle sue tutele. Su questo, però, Pierluigi Bersani è stato chiaro: “assolutamente dobbiamo occuparci del lavoro”, ha detto intervenendo alla trasmissione televisiva “Che tempo che fa” domenica sera. Si può cominciare da qui a discutere, allora? E’ questo un terreno su cui maggioranza e opposizione possono tornare a confrontarsi con toni e contenuti appropriati, sollecitati dall’urgenza delle questioni da affrontare e su cui dare risposte? Siamo profondamente convinti, come è stato già scritto su queste pagine da Francesco Riccardi, che “il lavoro oggi merita una Costituente che ne ridisegni lo Statuto”. Di proposte e materiali, al riguardo, ce ne sono già molti. A cominciare dal Libro Bianco del Governo e dalle idee sullo “Statuto dei lavori”, fondato sul riconoscimento di tutele progressive in funzione dell’anzianità e del grado di dipendenza economica del lavoratore. In Parlamento c’è la proposta del senatore Pietro Ichino che immagina un contratto a tempo indeterminato per tutti i nuovi rapporti di lavoro. Ma girano e si discute intorno a molte altre proposte, alle quali si è aggiunta da qualche giorno anche la petizione delle Acli "Verso uno Statuto dei lavori". Non si può dunque continuare a prendere tempo. A vantaggio di chi? E’ ora di costruire seriamente il consenso su una riforma necessaria per superare il dualismo del nostro mercato del lavoro e per non mettere giovani e anziani gli uni contro gli altri. Per non incentivare lo scontro tra quanti hanno un lavoro stabile e quanti vivono nella luce, fioca ed intermittente, di contratti “a scadenza”. Per non ipotecare il futuro di chi si affaccia ora sul mercato del lavoro con la prospettiva di tutele previdenziali inconsistenti. La questione del lavoro in tutte le sue dimensioni è una reale priorità del Paese, almeno della gente che si incontra tutti i giorni. Ed è una priorità soprattutto, riprendendo le parole del cardinale Angelo Bagnasco, per “seminare speranza” nei giovani e per sostenere la fiducia di quanti lo stanno perdendo. (da Avvenire – 10 novembre 2009)

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