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Chi pensa che la posta in gioco nella trattativa per il salvataggio di Alitalia sia soltanto la compagnia di bandiera è stupido o in malafede. In gioco in questa partita c’è infatti ben altro, cioè l’esistenza stessa di un sistema (politico, industriale, sindacale, civile) chiamato Italia. Ecco perché la partita è di vitale importanza, ecco perché non vogliamo rassegnarci a vederla finire così. Abbiamo qui criticato la soluzione cui era giunto il governo Prodi, perché essa era una vendita punto e basta. Anzi, per dirla tutta, una svendita. Oggi però dobbiamo constatare che rischiamo di dover ammettere che l’Italia non è più in grado di trovare una soluzione «di sistema» ai suoi problemi. Questo è il nodo centrale della questione, questo è il dilemma nel quale ora ci dibattiamo.

Cos’è, in buona sostanza, la cordata «CAI» guidata da Roberto Colaninno? Altro non è che una risposta in cui tutti gli elementi del sistema sono al tavolo: governo (e più in generale la politica), finanza (Banca Intesa), imprenditori nazionali (a cominciare dalla Presidente di Confindustria) e sindacati. La cordata è sostanzialmente il meglio che abbiamo, nel senso che in giro non c’è di meglio e nel senso che l’operazione non può neppure essere diversamente concepita, poiché a quel tavolo sono presenti tutti i soggetti che ci devono stare.

Cosa dunque conduce al fallimento della trattativa? Questa è la domanda più importante, la cui risposta costituisce il paradigma dell’attuale situazione.

La trattativa fallisce essenzialmente per due motivi. Il primo è di carattere politico, ed attiene alla valutazione che la CGIL ha compiuto nelle ultime ore. Una valutazione che ha portato Epifani a negare l’assenso al «piano CAI» in omagio alla sua appartenenza politica, correndo in soccorso al suo partito di riferimento, il PD, che cerca ossigeno dal fallimento del governo e di Berlusconi in particolare.

Il secondo motivo che conduce al fallimento è di carattere sindacale ed attiene alla volontà di quelle sigle di categoria (piloti in particolare) che desiderano portare nella nuova compagnia il modello di strapotere in cui hanno operato con l’Alitalia di Stato degli ultimi decenni. Un modello in cui tutti i passaggi che contano nella gestione del personale (e dei piloti soprattutto) sono pesantemente condizionati dagli stessi rappresentanti sindacali che hanno fatto saltare il tavolo della trattativa. Un modello che i soci CAI non potevano accettare.

Ecco il problema che abbiamo di fronte, che dimostra l’incapacità di alcuni soggetti di ragionare in una logica di sistema. Incuranti degli interessi generali, essi guardano al proprio «particolare» in una logica che considera il fallimento dell’azienda come male minore rispetto al ridimensionamento del proprio ruolo.

Adesso la partita finisce dritta sul tavolo del presidente del Consiglio, che ha più di tutti da perderci in questa vicenda. Egli è protagonista di un’avvio di legislatura spumeggiante, all’insegna del fare. Premiato nei sondaggi oltre l’immaginabile, Berlusconi sta chiudendo in un angolo Veltroni e tutti gli altri. Ma sulla partita Alitalia rischia di incrinarsi questo ruolo di «risolutore di problemi» che il Cavaliere si è ritagliato. Difficile indicare una strada buona per uscire da questa storia. Forse l’Italia è matura per una soluzione «shock», cioè la morte della compagnia. A quel punto ognuno si dovrà prendere le proprie responsabilità, soprattutto di fronte ai lavoratori.

C’è in giro una gran voglia di soluzione nette e forti. Da un tracollo si può risorgere. Di melina e concessioni si può morire. (Fonte: Il Tempo – Autore: Roberto Arditti)

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