di Marco Mercolini Tinelli

(estratto dal periodico Ophys, direttore Alberto Premici) – © Offida.info

Da quanto mi risulta, al Carnevale Offidano non è stata riconosciuta l’importanza delle sue implicazioni sociali che pure esistono ed appaiono evidenti osservando il suo lungo “iter” di festa popolare.

Lo riassumo in breve.

Le “Dionisiache” greche e i “Saturnali” romani possiamo considerarli Carnevale “ante litteram”. Specialmente i secondi (Saturnali e Baccanali) esagerarono un po’ lor gioiosa licenza talché l’austero Senato intervenne (186 a.C.) severamente; istigato da quel bigotto di Catone il Censore.

Dopo di lui nei tempi, elementi di tal genìa, d’ogni colore e specie, romperanno pur sempre i coglioni. Le prime sceneggiate italiche originali “Favole Atellane” e “Ludi Fescennini” con le buffe maschere dei personaggi di “Pappus”, “Maccus”, “Bucco” ecc sopravvissero nel Medioevo in veste di giullari, menestrelli, saltimbanchi e furono gli avi, nella gloriosa “Commedia dell’Arte” di Pulcinella, Pantalone, Arlecchino ecc. tuttora vegeti e saltellanti. Negli anni oscuri continuò, più o meno consapevole, la memoria di quei riti già accennati che diedero poi con “Mimo”, “Pantomimo” e con la commedia d’ispirazione greca (Plauto e Terenzio) spettacoli mirabili, i quali per secoli allietarono le genti dell’impero.

Questi ricordi classici certamente giovarono al sorgere del Carnevale, come un precoce Rinascimento in ambito popolare; ma la causa precipua fu di natura sociale. Gli uomini del medioevo, faticando assai con poco profitto e nessuna soddisfazione, erano certamente desiderosi di svago e compagnia. Non valevano granché, a tale scopo, le consuete cerimonie o qualche “Sacra Rappresentazione” invero triste e lagnosa.

La migliore occasione fu una festa prolungata, motivo non solo di baldoria, bensì di stare insieme, conversare, scambiare idee e progetti. In una parola di socializzare. Sorse così il Carnevale Aufidico.

E venne il “Bove Finto” dono, forse, di un Signore, del Comune o di chi altro: quel primo “vero bue” diede un’ottima occasione di gastronomia sociale. Con quei “chiari di luna” fu episodio grandioso; divenne storico! Si tramandò negli anni.

Ancor oggi la sagra de “Lu Bov(e) Fint(e)”, un’ imitazione di legno e cartapesta e con cambiamenti ed eccessi (o tempora, o mores!), continua a richiamar folle di forestieri, anche troppi, da quei luoghi che non conoscono più simile festa. In passato, molte città e paesi d’Italia celebravano carnevali notevoli; poi le vicissitudini del XX secolo e relativo cambiamento di mentalità, li portarono all’occaso. Alcuni siti turistici preparano sfarzosi carri allegorici, belli, impegnativi; ma non sono consoni al vero spirito spontaneo, improvviso e dinamico del rito dionisiaco. Ad Offida il Carnevale trionfa.

Pur conservando le tradizioni antiche, dopo la guerra si è rinnovato; è risorto! Per acquisirne una certa conoscenza storica giova citare l’aureo libretto “A Zonzo per Offida” di Guglielmo Allevi. Con ornata prosa di fine ottocento descrive in alcuni passi i vari episodi del gran giorno finale: martedì. Dal corteo del Pupazzo (Bacco o Sileno) comicamente solenne ed allusivo, fino al trionfo del fuoco; la fiaccolata dei “Velurd” (Bagordi).

Non trascuro, è ovvio, la necessaria componente bacchica. E dice dei tremendi vinacci cotti che accendevano l’entusiasmo dei partecipanti, con gli scherzi pesanti, i ceffoni, più o meno amichevoli, ed il finale ritorno, o trasporto, a casa. A tal proposito, da vecchio cantiniere e bevitore esperto, quando penso quali “cefeche” dovevan tracannare quei baccanti: mi si rizzano i quattro capelli superstiti.

Eran lontani nel passato i vini dell’Era gentile, Cecùbo, Falerno; eran lontani nel futuro i ritrovati della tecnica enologica. Ma tant’è. Non c’era di meglio. I validissimi nostri antenati “Carnevalieri” medioevali, e più recenti assai, sapevan “fare di necessità virtù”.

Gai, esultanti “sgargarozzavano” il “fiero vinazzo”… ed era buono! Onore a loro! “Carnevalieri” odierni, concludo affermando: Il Carnevale nostro è grande; “tenemècelu e ‘ccare!”

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