di Gabriele Gabrielli *

Lo spunto per questa riflessione ci viene dalla lettura di alcuni tra i molti commenti che hanno accompagnato la sottoscrizione tra Governo e Parti sociali del cosiddetto Protocollo sul Welfare, recentemente sottoposto anche alla verifica di milioni di lavoratori che ne hanno approvato le logiche e i contenuti. La gran parte dei contributi ha dedicato l’attenzione, come era normale e prevedibile, ad analizzare i contenuti del Protocollo, i suoi capitoli ed aree di intervento, i temi e gli strumenti individuati sulle varie questioni affrontate (mercato del lavoro, pensioni, ammortizzatori sociali, ecc.). Insomma le analisi si sono concentrate prevalentemente su quello che “è stato scritto”; c’è però un filone di analisi (per la verità un po’ più “striminzito”) che sta provando a far discutere e a far dibattere ciò che invece “non è stato scritto” nell’accordo sul Welfare. Tra i commenti di questo genere, per il suo interesse e la sua chiarezza, c’è quello di Maurizio Ferrera che merita –a nostro modo di vedere- proprio di essere ripreso [Il Protocollo? Un ritorno al modello Ford, Corriere della Sera, 19 ottobre 2007]. Proviamo a sintetizzarne, semplificandoli, i suoi contenuti. L’accordo tra Governo e Parti sociali, questa è la tesi davvero “in pillole”, si muove su un solco tradizionale fatto dei soliti ingredienti e cucinato secondo una filosofia che considera la “giustizia sociale” essenzialmente come “una questione di compensazioni tra classi e categorie occupazionali”. È questa l’arena del “mercato del lavoro”, sostiene Ferrera, categoria propria di quello che chiama “modello Ford”. Insomma, continuando con la metafora proposta, si tratta di una “cucina tradizionale”, una occasione persa per introdurre con qualche consistenza gli elementi di un nuovo modello di cui c’è traccia in diverse fonti: a livello di Unione Europea, nell’approccio che stanno seguendo alcuni paesi della comunità e non solo dell’area scandinava, perfino nel programma del Governo Prodi. È quello che viene chiamato “modello Lego” che vuole sostenere i bisogni, “mattoncino su mattoncino” come nel gioco cui si ispira il modello, dell’intero ciclo di vita. Secondo questa filosofia è necessario allora che gli investimenti vadano in direzione di tutto ciò che possa accrescere apprendimento, formazione e aggiornamento delle competenze, costituendo queste le indispensabili condizioni sociali e organizzative per consentire un cambio di filosofia. Ciò che non è stato scritto nell’accordo sarebbe dunque un approccio che modifichi la concezione del Welfare; un approccio cioè che non consideri quest’ultimo terreno esclusivo delle varie categorie occupazionali; ma anche un terreno dove costruire un Welfare per i bambini e per le donne, mattoni fondamentali del “modello Lego”. In altre parole, da noi si continua a investire più risorse per le pensioni di quanto ne vengano destinate ai servizi dell’infanzia. Walter Passerini, al riguardo, lamenta i pochi incentivi all’assunzione di donne, agli asili e agli altri servizi finalizzati a realizzare “luoghi accoglienti di prima educazione” [Il Sole 24 Ore, 3 ottobre, 2007]. È un cambiamento difficile da fare, perché innova profondamente la visione della società e quindi anche del lavoro. Ma l’investimento “sulla vita” e non soltanto su alcuni “segmenti” della stessa è una strada da perseguire. L’obiettivo è quello di lavorare per un Welfare lungo tutta la vita, cominciando proprio dai “mattoni” della famiglia, dei servizi per l’infanzia e quindi per la maternità, della scuola e degli altri luoghi dove si formano cittadini e competenze sostenibili. Non si può continuare a pensare al Welfare solo di “annata” e quindi con l’occhio rivolto soltanto alle pensioni. (Fonte: La Voce della Vallesina)

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p align=”justify”>(*) Docente Università LUISS Guido Carli

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