E’ il pomeriggio dell’ultimo dì di carnevale: da ogni crocicchio, da ogni strada, da ogni chiassuolo, sbucano a tre, a quattro, a piccole brigatelle uomini bizzarramente camuffati; si uniscono agli altri, si affollano, ingrossano, inondano la città, borghesi, popolani, giovani, vecchi, fanciulli, ed è raro il caso che non vi si noti qualche donna più o meno gentile, rimasta a farci fede, come in antico anche il bel sesso prendesse parte alla festa del fuoco. Hanno indosso camiciotti bianchi, lunghi a mezza gamba, che il nostro popolo del contado usa nell’inverno col nome di guazzone; la testa caccian dentro ad ogni specie di copricapo, il viso infardano di farina e di ogni maniera di colori. Tutti poi, borghesi e popolo, piccini e grandi, recan tralci e corone di edera ed, ad armacollo, il tradizionale fiasco di vin cotto, qualche cosa di atroce, che ti cauterizza la gola e ti manda a spasso il cervello.

E così, questi strani figuri, dato di piglio a cassette di petrolio, a testi, a secchie di legno, e, martellandovi su alla disperata, scorazzano per le vie della città; e come il vino nella testa lavora, s’urtano, s’abbracciano, barcollano, cascano, si regalano ceffoni e baci da lasciar gli uni e gli altri il livido sulle guancie. Lungo le strade, in tanto, per le piazze, nei viottoli, ovunque, son là, che aspettano, i severi ministri dell’orgia del fuoco, ritti, taciturni, addossati alle case, alti così da sorpassarne i primi piani col capo: i ministri del fuoco, pronti a gittare il loro alito di fumo e di fiamme sulla città sgomenta. ..vo dire, fasci di canne, riempiti di paglia, anima vigliacca in corpo che si sfascia, conosciuti dal nostro popolo sotto il poco ben promettente nome di – BAGORDI -.

Oh, che è? Che non è? Da un’oscura strada della città si avanza lentamente un carro tirato a braccia di uomini e la folla si precipita verso esso schiamazzando. Su quel carro, sotto un verde padiglione di ellera, sta seduto un fantoccio vestito come dio vuole; la testa di legno ha calva, prominente, enorme il naso, il viso dipinto di carminio. Gli han posto intorno al collo a parecchi giri un monile di gusci d’uova, e il monile ricade abbondantemente sul petto. Intorno al carro, di qua, di là, di su, di giù, è una ressa, un diavolio di maschere, tra le quali uomini che, coperti il tergo con una pelle nera di scaprone e tiratone il muso sul capo a maniera di cappuccio, dando fiato a buccine ed a corni e grottescamente saltellano.

La folla degli incamiciati, quasi presa da sacro furore, urlando, si caccia giù in corsa per la via del Serpente Aureo: e in quella lunga e stretta gola, fiancheggiata da alte case, non vedi che una confusione indescrivibile di figure umane, e sopra esse, fra turbini di fumo, un aleggiare di mille fiamme che si allontanano ondeggiando; e sbattimenti di luci e giuochi di ombre corron su per le mura circostanti, poi, su nell’alto, una striscia di cielo nero punteggiato qua e là da qualche stella pallida. E gli incamiciati tornano, cioncano, ripiglian fiato, si ricacciano per le vie, s’abbattono, s’incrociano con altri, e tutto è fuoco, fumo, urli, un vero pandemonio. Ma il severo genio, che presiede alla festa, adesso ravvolto esso pure in un mantello di porpora, manda di lassù nello spazio la sua poderosa voce di bronzo; i bagordieri si sparpaliano, i fuochi si spengono, cessa l’urlio, e le tenebre tornano a regnare sovrane sulla città che tace e si addormenta. (stralcio da “A Zonzo per Offida” di Guglielmo Allevi )

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