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di Gabriele Gabrielli *

Il risalto che è stato dato recentemente anche dalla stampa italiana all’accusa che una documentata inchiesta del quotidiano Los Angeles Times rivolge alla Fondazione di Bill Gates ci suggerisce qualche riflessione su un tema, quello della “filantropia” e delle sue modalità di organizzazione e gestione, che abbiamo già toccato ad ottobre, ampliandone ora la prospettiva. Qual è dunque la notizia? Sembrerebbe –secondo l’inchiesta richiamata- che il ricco e generoso portafoglio di beneficenza della Gates Foundation dell’inventore di Microsoft sia alimentato in gran parte dai profitti raccolti tramite investimenti in multinazionali e aziende poco attente proprio a quei beni (salute, ambiente, ecc.) che gli scopi della Fondazione vorrebbero invece tutelare e salvaguardare. Non c’è certo da stare allegri allora! Se fosse davvero così, la “nutrita documentazione sulla corporate irresponsibility” –come la chiama Luciano Gallino (L’impresa irresponsabile, Einaudi, Torino 2005)- si arricchirebbe di azioni socialmente poco responsabili attribuibili, questa volta, non alle multinazionali o alle grandi imprese che vogliono ad ogni costo massimizzare a breve termine il loro valore di mercato, bensì a organizzazioni che hanno –nella beneficenza e nella donazione- la loro “ragione di esistere”. Come fare d’altra parte? Già segnalavamo nel precedente scritto come fossero interessanti le modalità di gestione indicate dai fondatori di un’altra organizzazione filantropica, la Google.org, per sostenere la sua attività benefica e combattere povertà, malattie ed effetto serra. I fondatori di Google, infatti, indicarono che la dotazione di capitale iniziale dovesse essere opportunamente utilizzata in “investimenti che generano profitti” proprio per finanziare –con i risultati di questa gestione- le iniziative coerenti con lo scopo. Vittorio Zucconi su La Repubblica (“Così fa del male il benefattore Gates”, lunedì 8 gennaio 2007) ci illumina su questo aspetto e annota come “per evitare proprio questo conflitto di interesse, Bill Gates aveva separato il braccio benefico della fondazione dal braccio finanziario, perché la destra non sapesse ciò che fa la sinistra”. L’organizzazione e il suo disegno possono aiutare, insomma, a prevenire situazioni di conflitto. Le questioni che possono essere sollevate, a tal proposito, sono molte e tutte –come sempre- complesse e alquanto vischiose. Ci limitiamo ad “aprirne” soltanto una, quella che può essere sintetizzata così: se le intenzioni sono buone, dobbiamo preoccuparci anche delle azioni che poniamo in essere per realizzarle? O ancora, aggiornando il Machiavelli: l’obiettivo della beneficenza giustifica l’investimento di capitali in iniziative che contribuiscono a produrre quei mali e quella sofferenza che si vogliono “lenire”? O infine: si può fare management in modo strabico dalla leadership che informa e guida l’organizzazione gestita? Attingeremo molto per questa riflessione dagli spunti offertici dalla lettura di una bella raccolta di saggi di Dario Antiseri, da poco pubblicata, sull’azione umana e sui suoi fondamenti (Liberali e solidali, Rubbettino, 2006). Crediamo che il punto di partenza non possa che essere questo; l’azione umana è sempre azione cosciente e responsabile e quindi attribuibile a individui. Questa premessa, che è l’essenza concettuale dell’“individualismo metodologico”, può essere ribadita in quest’altro modo; l’uomo è diverso da ogni altro animale perché è consapevole delle proprie azioni in quanto –come scrive Ludwig von Mises- “egli aggiusta il suo comportamento deliberatamente”. Ciò significa, dunque, che non ci può essere disegno organizzativo o modello di corporate governance che possano offuscare la responsabilità individuale o, peggio, “spostare” la responsabilità dei comportamenti dall’individuo alle organizzazioni. È solo in questo senso che possiamo e vogliamo leggere la conclusione di Vittorio Zucconi al contributo già ricordato quando scrive: “non è facile, neppure per i miliardari filantropi, essere ‘socialmente responsabili’ in un mondo socialmente irresponsabile”. Certo, quando si hanno responsabilità di gestione nella conduzione di organizzazioni e uomini potremmo spesso trovarci a che fare con quelle che Papa Leone XIII chiamava “le conseguenze inintenzionali delle buone intenzioni”. Questa allora –mutuandola dagli scritti autorevoli menzionati di Dario Antiseri- la domanda: è sufficiente per difendere la persona –in tutti i diversificati ruoli e responsabilità che la stessa può assumere- l’etica dell’intenzione?

(Fonte: Executivemba news 4/2007)
* Direttore Executive MBA – LUISS BUSINESS SCHOOL

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